Una decina di giorni fa è uscita su diversi giornali la notizia che la causa principale del cancro fosse la sfortuna.
Non mi metterò qui a smontare questa notizia. Ci hanno già pensato in tanti più competenti di me. Cercatevelo su Google.
Qui invece mi preme parlare del tema della divulgazione scientifica.
Nel nostro paese l’importanza data all’alfabetizzazione scientifica è scarsa.
Ma gli altri paesi non sono messi meglio, soprattutto le pigre nazioni dell’opulento Occidente.
La soluzione normalmente accettata è riassumibile con un “dobbiamo colmare questo vuoto”.
Divulgare quindi, far capire ai più cosa fa e cosa sia la ricerca, e perché essa costituisca un elemento importante (se non essenziale) di un paese che si dica civile ed avanzato, appare come una missione intellettuale, ineluttabile ed invocata dai più.
La divulgazione in Italia la fanno in pochi, e tra questi pochi molti la fanno male. Nel senso che spesso il messaggio di uno studio è lacunoso, impreciso, incompleto se non totalmente stravolto.
Su internet si trova di tutto. Vedi per l’appunto anche questo blog.
Le opinioni in rete si moltiplicano e spesso separare il grano dal loglio diventa difficile per i non addetti ai lavori.
Ecco perché io sono CONTRO la divulgazione scientifica.
Mi spiego brevemente.
La tradizionale comunicazione della scienza si fonda su un modello di interazione che è stato dimostrato fallimentare oramai da tempo.
Ma siccome gli scienziati sono i primi ad ignorare con orgoglio quello che accade negli altri campi del sapere (quantunque attigui) non ci si deve sorprendere se ancora li si senta sbraitare frasi a caso tipo “se la gente capisse quello che facciamo ci sarebbero meno problemi” fino a proclamare bovinamente pericolosi revanchismi degni di un becero platonismo dei poveri che fa gongolare lo scienziato medio nell’immaginarsi, assieme ad una nutrita folla di suoi colleghi, a governare lo stato.
“Allora sì che si farebbero le scelte giuste!” Ho i brividi solo a pensarci.
La divulgazione si basa appunto sul cosiddetto modello deficitario che consiste nel credere che il problema della comunicazione sia esclusivamente da imputarsi all’ignoranza di chi ascolta e non sa. Un’ignoranza che va appunto riempita.
Peccato però che l’idea per cui una maggiore informazione garantisca un maggiore consenso (circa le attività della scienza) sia stato dimostrato essere una bella CAZZATA.
Senza contare come questa visione oracolare della ricerca faccia più danni della grandine. Soprattutto alla scienza.
Produce infatti una società che non si preoccupa e non partecipa, in perenne attesa che dal Tempio del Sapere vengano partorite le nuove verità.
La scienza non è un “dato“, un qualcosa che viene snocciolato, un preparato bell’e pronto come i 4 Salti in Padella.
La scienza e le sue verità sono anche l’espressione del loro tempo, delle società che le esprimono, degli uomini che la fanno e le scoprono.
Delle idee e convinzioni che questi uomini hanno.
Rivogare la storiella che vede la scienza come un unicum, un dolmen granitico in cui tutto torna, è un’immagine puerile forse nata per combattare le ansie di quegli scienziati che probabilmente avrebbero dovuto fare altro nella vita.
Si tratta anche di ripensare il modello deficitario e di formularne uno basato sul dialogo.
Perché ascoltare in silenzio e credere a quello che ci viene detto a casa mia si chiama andare a messa.
E gli scienziati non possono vivere con fastidio (o come una inopportuna invasione del loro campo di indagine) il fatto che ciò che fanno sia in relazione con il mondo in cui vivono e soprattutto con gli altri cittadini del paese di cui anche loro fanno parte.
Il problema poi non è tanto far crescere il pensiero scientifico. Non esiste alcuna deriva oscurantista o antiscientista diffusa nella società (E lo dicono studi scientifici: come riportato su “Social values, Science and Technology”, Special Eurobarometer 225, 63.1, Commissione Europea, Bruxelles 2005) .
E quindi?
Anzitutto è opportuno capire che comunicare, persuadere ed educare sono 3 cose diverse.
La comunicazione poi non è una mera traduzione. I fatti non parlano da soli.
Scriveva nei primi del ‘900 il grande matematico Henri Poincaré che “la scienza è composta di fatti, così come una casa è composta di mattoni, ma una semplice collezione di fatti è scienza non più di quanto un mucchio di mattoni sia una casa“.
Comunicare quindi significa anche e soprattutto interpretare, sapere come rivolgersi a seconda del pubblico.
E la persuasione non è mai automatica. Se il messaggio non è capito o non è efficace, è sempre colpa di chi non ha saputo veicolarlo, non di chi ascolta.
Ecco che qui casca l’asino. Il modello deficitario privilegia la comunicazione dall’alto, cattedratica, assertiva. E poi si meraviglia se non riesce a persuadere.
Figuriamoci educare.
Educare. La scuola finalmente.
Per questo aspetto c’è poco da fare. Bisogna investire nella qualità dell’insegnamento e dunque degli insegnanti.
Sia a scuola che all’università, due luoghi dove il livello è calato a picco.
Perché se fu anche vero che la scuola di Gentile produsse quell’odiosa dicotomia tra sapere scientifico ed umanistico (un vero controsenso in termini per chi ha studiato un po’) relegando le scienze al secondo posto, è anche vero che tale divisione a certi scienziati piacque, rendendo così la ricerca (scientifica e non) menomata.
Per non parlare dei cosiddetti umanisti che, contro la loro stessa disciplina e immemori del detto di Terenzio “Homo sum humani nihil a me alienum puto” (“Sono un uomo, niente di umano per me è estraneo”), scelgono, da veri beoti, di ignorare la complementare metà del loro mondo.
La scuola dicevamo.
La scuola è stata ridotta ai minimi termini e sforna dunque persone ridotte ai minimi termini.
La scuola insomma come luogo dove formare non tanto al lavoro, quanto futuri cittadini, individui dotati di pensiero critico (che parte della scienza moderna sembra aver smarrito forse perché non fa vincere i finanziamenti).
Diceva già Plutarco che i giovani non sono sacchi da riempire, ma fiaccole da accendere.
Non si tratta infatti di riempire le teste delle persone aspirando a ridicole menti universali di rinascimentale memoria.
Non si tratta di alfabetizzare su ogni cosa.
Nessuno può essere esperto di tutto.
Si tratta piuttosto di far crescere quelle capacità che ci rendono capaci di fare delle scelte, di distinguere, di essere critici su ciò che si legge e si ascolta.
Anche perché come il comune cittadino si beve oramai tutto, così è anche lo scienziato quando si avvicina a ciò che non riguarda il suo pane quotidiano (ma su cui si sente in diritto di pontificare comunque).
Un popolo più colto ma soprattutto formato al pensiero critico sarà un popolo meno in balia delle stronzate che invadono la rete, sarà più desiroso di partecipare e confrontarsi col mondo della ricerca e più capace di reagire ad eventuali derive tiranniche tipo la “dittatura degli esperti”.
Scriveva già Kant, parlando dei suoi tempi, come quell’epoca dei Lumi era non certo da intendersi in senso troppo trionfale, quanto piuttosto come l’inizio di un “Rischiaramento“.
Rischiaramento che il pensatore tedesco, con una buona dose di idealismo ed ottimismo illuminista (appunto) si augurava dovesse aumentare nel corso della storia.
Nel mondo invece c’è ancora buio. Anche nella progredita Europa. Ed invece di “accendere le fiaccole” (investendo su scuola ed istruzione) si preferisce alimentare questa enorme fabbrica di ignoranti, relegando la loro informazione e formazione alla divulgazione (nella migliore delle ipotesi trattasi di riassuntini da far vergognare un Bignami) salvo poi incazzarsi quando questi poveracci mostrino non solo di non capire ma soprattutto non si rendano conto di non capire.
Chapeau!
Believe? No, question.
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